Cosa vedere a Rimini
Il Tempio Malatestiano
Il Tempio Malatestiano, usualmente indicanto dai cittadini come il Duomo, è la chiesa maggiore di Rimini. Sorta al posto della chiesa di San Francesco la facciata fu progettata da Leon Battista Alberti intorno al 1450 (comunque non oltre il 1454). Tale opera presenta una notevole valenza storica oltre che architettonica e culturale. Infatti, durante la sua edificazione il committente, Sigismondo Pandolfo Malatesta, Signore di Rimini e condottiero di grande reputazione militare, entrò in contrasto con papa Pio II Piccolomini fin dalla sua elezione al soglio papale, a tal punto da ricevere la scomunica nel 1460. Sigismondo fu definitivamente sconfitto dalle truppe papali alleate con Federico da Montefeltro due anni dopo. Durante tale tormentato periodo i lavori proseguirono ma con una modifica sostanziale. Volle infatti tale edificio unicamente come sepolcro suo, per la sua stirpe e per i dignitari a lui vicino, eliminando qualunque simbolo cristiano, cosa inaudita per quei tempi e praticamente unica in Italia. Nella struttura originaria non è incredibilente prevista una croce o un santo. Da qui la denominazione 'Tempio'. A guisa di tempio pagano le 6 cappelle laterali sono intitolate alle muse, allo zodiaco, agli innocenti e decorate in tema. Due ulteriori cappelle sono dedicate ai Seplolcri di Sigismondo e Isotta. Notevole è quella dello zodiaco e in particolare il bassorilievo del segno del Cancro, lo stesso di Sigismondo, che domina come un sole la rappresentazione della città dell'epoca. Ovunque, quasi ossessivamente, sono ripetute in bassorilievo la S e la I incrociate, usualmente ritenuta una commemorazione dell'amore tra Sigismondo e Isotta degli Atti, ma forse più prosaicamente come semplice abbreviazione di Sigismondo. Altri simboli sovente ripetuti sono la rosa canina e l'elefante, legati al suo casato, nonchè frondoni di frutta. Una grande quantità di statuette di putti adornava l'interno, molti dei quali oggigiorno asportati e dispersi in innumerevoli collezioni private locali.
Il Tempio Malatestiano, usualmente indicanto dai cittadini come il Duomo, è la chiesa maggiore di Rimini. Sorta al posto della chiesa di San Francesco la facciata fu progettata da Leon Battista Alberti intorno al 1450 (comunque non oltre il 1454). Tale opera presenta una notevole valenza storica oltre che architettonica e culturale. Infatti, durante la sua edificazione il committente, Sigismondo Pandolfo Malatesta, Signore di Rimini e condottiero di grande reputazione militare, entrò in contrasto con papa Pio II Piccolomini fin dalla sua elezione al soglio papale, a tal punto da ricevere la scomunica nel 1460. Sigismondo fu definitivamente sconfitto dalle truppe papali alleate con Federico da Montefeltro due anni dopo. Durante tale tormentato periodo i lavori proseguirono ma con una modifica sostanziale. Volle infatti tale edificio unicamente come sepolcro suo, per la sua stirpe e per i dignitari a lui vicino, eliminando qualunque simbolo cristiano, cosa inaudita per quei tempi e praticamente unica in Italia. Nella struttura originaria non è incredibilente prevista una croce o un santo. Da qui la denominazione 'Tempio'. A guisa di tempio pagano le 6 cappelle laterali sono intitolate alle muse, allo zodiaco, agli innocenti e decorate in tema. Due ulteriori cappelle sono dedicate ai Seplolcri di Sigismondo e Isotta. Notevole è quella dello zodiaco e in particolare il bassorilievo del segno del Cancro, lo stesso di Sigismondo, che domina come un sole la rappresentazione della città dell'epoca. Ovunque, quasi ossessivamente, sono ripetute in bassorilievo la S e la I incrociate, usualmente ritenuta una commemorazione dell'amore tra Sigismondo e Isotta degli Atti, ma forse più prosaicamente come semplice abbreviazione di Sigismondo. Altri simboli sovente ripetuti sono la rosa canina e l'elefante, legati al suo casato, nonchè frondoni di frutta. Una grande quantità di statuette di putti adornava l'interno, molti dei quali oggigiorno asportati e dispersi in innumerevoli collezioni private locali.
L'Isola Dei Platani
Nel cuore della Riviera Romagnola, Bellaria Igea Marina, località turistica dalla tradizione centenaria, ha sviluppato in questi ultimi anni una spiccata tendenza alla cura dell'ambiente e dell'equilibrio naturale fra relax e divertimento.
Un esempio significativo l'Isola dei Platani, nel centro urbano. E' un'area ad esclusivo uso pedonale, il cuore commerciale di Bellaria, ricchissima di negozi, pubblici esercizi e attività di servizio. Ovunque, aiuole fiorite e vegetazione pregiata. L'arredo urbano più bello della riviera.
Nel cuore della Riviera Romagnola, Bellaria Igea Marina, località turistica dalla tradizione centenaria, ha sviluppato in questi ultimi anni una spiccata tendenza alla cura dell'ambiente e dell'equilibrio naturale fra relax e divertimento.
Un esempio significativo l'Isola dei Platani, nel centro urbano. E' un'area ad esclusivo uso pedonale, il cuore commerciale di Bellaria, ricchissima di negozi, pubblici esercizi e attività di servizio. Ovunque, aiuole fiorite e vegetazione pregiata. L'arredo urbano più bello della riviera.
Ponte di Tiberio
Il ponte romano sul fiume Marecchia, l'antico Ariminus intorno al quale era sorto il primo insediamento, crea ancora oggi il collegamento tra la città e il suburbio (borgo San Giuliano). Da qui iniziano le vie consolari, Emilia e Popilia, dirette al Nord. La via Emilia, tracciata nel 187 a C. dal console Emilio Lepido, collegava Rimini a Piacenza; attraverso la via Popilia, invece, si raggiungeva Ravenna e si proseguiva fino ad Aquileia. Il ponte, iniziato da Augusto nel 14 e completato da Tiberio nel 21 d.C., come ricorda l'iscrizione che corre sui parapetti interni, si impone per il disegno architettonico, la grandiosità delle strutture e la tecnica costruttiva. Poco spazio è concesso invece all'apparato figurativo, comunque intriso di significati simbolici. In pietra d'Istria, si sviluppa in cinque arcate che poggiano su massicci piloni muniti di speroni frangiflutti ed impostati obliquamente rispetto all'asse del ponte, in modo da assecondare la corrente del fiume riducendone la forza d'urto, secondo uno dei più evidenti accorgimenti ingegneristici. La deviazione del Marecchia prima e, più recentemente, i lavori per la predisposizione di un bacino chiuso, hanno messo in luce i resti di banchine in pietra a protezione dei fianchi delle testate di sponda; recenti sondaggi hanno poi rivelato che la struttura del ponte poggia su un funzionale sistema di pali di legno, perfettamente isolati. Il ponte è sopravvissuto alle tante vicende che hanno rischiato di distruggerlo: dai terremoti alle piene del fiume, dall'usura agli episodi bellici quali l'attacco inferto nel 551 da Narsete, durante la guerra fra Goti e Bizantini di cui restano i segni nell'ultima arcata verso il borgo San Giuliano, e, da ultimo, il tentativo di minarlo da parte dei Tedeschi in ritirata.
Il ponte romano sul fiume Marecchia, l'antico Ariminus intorno al quale era sorto il primo insediamento, crea ancora oggi il collegamento tra la città e il suburbio (borgo San Giuliano). Da qui iniziano le vie consolari, Emilia e Popilia, dirette al Nord. La via Emilia, tracciata nel 187 a C. dal console Emilio Lepido, collegava Rimini a Piacenza; attraverso la via Popilia, invece, si raggiungeva Ravenna e si proseguiva fino ad Aquileia. Il ponte, iniziato da Augusto nel 14 e completato da Tiberio nel 21 d.C., come ricorda l'iscrizione che corre sui parapetti interni, si impone per il disegno architettonico, la grandiosità delle strutture e la tecnica costruttiva. Poco spazio è concesso invece all'apparato figurativo, comunque intriso di significati simbolici. In pietra d'Istria, si sviluppa in cinque arcate che poggiano su massicci piloni muniti di speroni frangiflutti ed impostati obliquamente rispetto all'asse del ponte, in modo da assecondare la corrente del fiume riducendone la forza d'urto, secondo uno dei più evidenti accorgimenti ingegneristici. La deviazione del Marecchia prima e, più recentemente, i lavori per la predisposizione di un bacino chiuso, hanno messo in luce i resti di banchine in pietra a protezione dei fianchi delle testate di sponda; recenti sondaggi hanno poi rivelato che la struttura del ponte poggia su un funzionale sistema di pali di legno, perfettamente isolati. Il ponte è sopravvissuto alle tante vicende che hanno rischiato di distruggerlo: dai terremoti alle piene del fiume, dall'usura agli episodi bellici quali l'attacco inferto nel 551 da Narsete, durante la guerra fra Goti e Bizantini di cui restano i segni nell'ultima arcata verso il borgo San Giuliano, e, da ultimo, il tentativo di minarlo da parte dei Tedeschi in ritirata.
Museo della Città (ex Convento dei Gesuiti)
L'edificio che oggi ospita il Museo, attiguo alla chiesa costruita dai Gesuiti tra il 1719 e il 1740 in onore di San Francesco Saverio, è sorto tra il 1746 e il 1755 su progetto dell'architetto Alfonso Torregiani (1682-1764) come "Collegio" dei Gesuiti. La forma planimetrica del complesso segue uno schema costruttivo tipico dell'architettura gesuitica: un corpo a forma di U addossato al fianco della chiesa, con un corridoio che gira sui tre lati interni, permettendo l'accesso a tutti i vani. Nel 1773, con la soppressione dei Gesuiti, il "Collegio" passò al Seminario vescovile che nel 1796 lo vendette ai Domenicani: anche questo Ordine venne revocato pochi mesi dopo. Dal 1797 al 1977 fu utilizzato come Ospedale, prima militare e poi civile, subendo molte trasformazioni funzionali. I bombardamenti dell'ultima guerra hanno gravemente danneggiato l'intera struttura. Il restauro, condotto dall'architetto Pier Luigi Foschi, ha riproposto la suggestione degli antichi spazi, oggi adibiti a sale espositive del Museo della Città.
L'edificio che oggi ospita il Museo, attiguo alla chiesa costruita dai Gesuiti tra il 1719 e il 1740 in onore di San Francesco Saverio, è sorto tra il 1746 e il 1755 su progetto dell'architetto Alfonso Torregiani (1682-1764) come "Collegio" dei Gesuiti. La forma planimetrica del complesso segue uno schema costruttivo tipico dell'architettura gesuitica: un corpo a forma di U addossato al fianco della chiesa, con un corridoio che gira sui tre lati interni, permettendo l'accesso a tutti i vani. Nel 1773, con la soppressione dei Gesuiti, il "Collegio" passò al Seminario vescovile che nel 1796 lo vendette ai Domenicani: anche questo Ordine venne revocato pochi mesi dopo. Dal 1797 al 1977 fu utilizzato come Ospedale, prima militare e poi civile, subendo molte trasformazioni funzionali. I bombardamenti dell'ultima guerra hanno gravemente danneggiato l'intera struttura. Il restauro, condotto dall'architetto Pier Luigi Foschi, ha riproposto la suggestione degli antichi spazi, oggi adibiti a sale espositive del Museo della Città.
Piazza Tre Martiri - resti archeologici
La piazza ricalca parte del foro di Ariminum, colonia romana fondata nel 268 a.C.: posto alla confluenza delle due strade principali, il cardo e il decumano, l'antico impianto, più ampio e dilatato fino alla via San Michelino in foro, era lastricato con grandi pietre rettangolari, ora in parte visibili attraverso aperture recintate. Statue onorarie e pregevoli architetture creavano una suggestiva scenografia alla vita della piazza. Un basamento in pietra doveva sorreggere un arco che enfatizzava l'accesso orientale al foro, sbarrando forse il traffico veicolare. Un cippo cinquecentesco ricorda il discorso che Giulio Cesare avrebbe rivolto alle legioni dopo il passaggio del Rubicone: in sua memoria la piazza, che già ne portò il nome, ospita una statua bronzea, copia di un originale romano. Dall'età tardo antica, nel lato a mare, si insediarono le chiese di San Michele, di Sant' Innocenza e San Giorgio, oggi distrutte. Nel Medioevo la piazza, oramai in secondo piano rispetto a quella del Comune, fu luogo di mercati: attraverso la via dei Magnani (ora via Garibaldi), segnata da un arco fra la cortina delle abitazioni, giungevano i prodotti dal contado. Sotto i portici si aprivano le beccherie, botteghe per la vendita della carne. La piazza fu inoltre teatro di giostre, tornei cavallereschi, manifestazioni e cerimonie pubbliche legate anche alla famiglia Malatesta. Qui si concludeva ogni anno il palio di San Giuliano che, partito dal borgo, godeva di grande partecipazione popolare. Capitelli gotici e rinascimentali ornano il portico sul lato monte della piazza. Agli inizi del Cinquecento, fu edificato il Tempietto dedicato a Sant'Antonio da Padova in ricordo del miracolo che, nel XIII secolo, rese una mula devota all'ostia consacrata. Ricostruito nel XVII secolo, ha mutato l'aspetto originale per i vari restauri. Dietro il tempietto i Minimi di San Francesco di Paola fondarono, agli inizi del Seicento, un luogo di culto, riedificato nel 1729: qui, dal 1963, sorge la chiesa dei Paolotti.
La piazza ricalca parte del foro di Ariminum, colonia romana fondata nel 268 a.C.: posto alla confluenza delle due strade principali, il cardo e il decumano, l'antico impianto, più ampio e dilatato fino alla via San Michelino in foro, era lastricato con grandi pietre rettangolari, ora in parte visibili attraverso aperture recintate. Statue onorarie e pregevoli architetture creavano una suggestiva scenografia alla vita della piazza. Un basamento in pietra doveva sorreggere un arco che enfatizzava l'accesso orientale al foro, sbarrando forse il traffico veicolare. Un cippo cinquecentesco ricorda il discorso che Giulio Cesare avrebbe rivolto alle legioni dopo il passaggio del Rubicone: in sua memoria la piazza, che già ne portò il nome, ospita una statua bronzea, copia di un originale romano. Dall'età tardo antica, nel lato a mare, si insediarono le chiese di San Michele, di Sant' Innocenza e San Giorgio, oggi distrutte. Nel Medioevo la piazza, oramai in secondo piano rispetto a quella del Comune, fu luogo di mercati: attraverso la via dei Magnani (ora via Garibaldi), segnata da un arco fra la cortina delle abitazioni, giungevano i prodotti dal contado. Sotto i portici si aprivano le beccherie, botteghe per la vendita della carne. La piazza fu inoltre teatro di giostre, tornei cavallereschi, manifestazioni e cerimonie pubbliche legate anche alla famiglia Malatesta. Qui si concludeva ogni anno il palio di San Giuliano che, partito dal borgo, godeva di grande partecipazione popolare. Capitelli gotici e rinascimentali ornano il portico sul lato monte della piazza. Agli inizi del Cinquecento, fu edificato il Tempietto dedicato a Sant'Antonio da Padova in ricordo del miracolo che, nel XIII secolo, rese una mula devota all'ostia consacrata. Ricostruito nel XVII secolo, ha mutato l'aspetto originale per i vari restauri. Dietro il tempietto i Minimi di San Francesco di Paola fondarono, agli inizi del Seicento, un luogo di culto, riedificato nel 1729: qui, dal 1963, sorge la chiesa dei Paolotti.
Palazzo Gambalunga - Biblioteca
La Biblioteca si trova nel superbo palazzo che il riminese Alessandro Gambalunga fece costruire, fra il 1610 e il 1614, nella centrale via dove sorgevano le case dell'antica nobiltà riminese. Influenzato dai canoni architettonici di Sebastiano Serlio, l'edificio può essere ammirato per l'eleganza dei suoi dettagli costruttivi e ornamentali, ispirati all'architettura classica. Il grande portale d'ingresso si affaccia su una bella corte, al cui centro, dal 1928, è posto un settecentesco pozzo in pietra d'Istria. Nell'atrio e nel cortile sono conservati alcuni dei marmi che la comunità ha dedicato ai Riminesi illustri. Originariamente al pian terreno c'erano le stalle, le officine, le rimesse e I magazzini. All'ultimo piano si trovavano i granai, le abitazioni dei servi, del fattore e una piccola officina per rilegare i libri, di cui Gambalunga era un attento raccoglitore. Il piano nobile, oggi sede della Biblioteca, ospitava gli appartamenti di Alessandro e della moglie Raffaella Diotallevi. Lussuosamente arredato con arazzi, broccati e dipinti, il palazzo fu luogo d'incontro di eruditi e letterati, di cui Alessandro fu generoso mecenate. Dopo la sua morte, la libreria venne collocata a pian terreno, nelle tre sale di via Tempio malatestiano, ove rimase fino agli anni '70, quando, con la ristrutturazione dell' edificio, la biblioteca fu trasferita nelle sale superiori. Qui, insieme ai nuovi servizi della biblioteca multimediale, si trovano in continuità spaziale e temporale le quattro sale storiche (tre del secolo XVII e una del secolo XVIII), con gli arredi e i fondi bibliografici originali. Il pianterreno è oggi sede della Cineteca e della Biblioteca dei ragazzi.
La Biblioteca si trova nel superbo palazzo che il riminese Alessandro Gambalunga fece costruire, fra il 1610 e il 1614, nella centrale via dove sorgevano le case dell'antica nobiltà riminese. Influenzato dai canoni architettonici di Sebastiano Serlio, l'edificio può essere ammirato per l'eleganza dei suoi dettagli costruttivi e ornamentali, ispirati all'architettura classica. Il grande portale d'ingresso si affaccia su una bella corte, al cui centro, dal 1928, è posto un settecentesco pozzo in pietra d'Istria. Nell'atrio e nel cortile sono conservati alcuni dei marmi che la comunità ha dedicato ai Riminesi illustri. Originariamente al pian terreno c'erano le stalle, le officine, le rimesse e I magazzini. All'ultimo piano si trovavano i granai, le abitazioni dei servi, del fattore e una piccola officina per rilegare i libri, di cui Gambalunga era un attento raccoglitore. Il piano nobile, oggi sede della Biblioteca, ospitava gli appartamenti di Alessandro e della moglie Raffaella Diotallevi. Lussuosamente arredato con arazzi, broccati e dipinti, il palazzo fu luogo d'incontro di eruditi e letterati, di cui Alessandro fu generoso mecenate. Dopo la sua morte, la libreria venne collocata a pian terreno, nelle tre sale di via Tempio malatestiano, ove rimase fino agli anni '70, quando, con la ristrutturazione dell' edificio, la biblioteca fu trasferita nelle sale superiori. Qui, insieme ai nuovi servizi della biblioteca multimediale, si trovano in continuità spaziale e temporale le quattro sale storiche (tre del secolo XVII e una del secolo XVIII), con gli arredi e i fondi bibliografici originali. Il pianterreno è oggi sede della Cineteca e della Biblioteca dei ragazzi.
Porta Montanara
La costruzione della porta Montanara, detta anche di Sant'Andrea, risale al I secolo a.C. e si inserisce in un organico programma di riassetto del sistema difensivo cittadino, attribuito a Silla. La porta rientrerebbe nell'ambito delle ricostruzioni che, nei primi decenni del secolo, seguirono alle rappresaglie nei confronti della città, già sostenitrice di Mario, suo avversario nella guerra civile. L'arco a tutto sesto, in blocchi di arenaria, costituiva una delle due aperture della porta che consentiva l'accesso alla città per chi proveniva dai colli lungo la via aretina, percorrendo la valle del Marecchia. Il doppio fornice agevolava la viabilità, incanalando in passaggi paralleli, il percorso in uscita da Ariminum, attraverso il cardo massimo, e quello in entrata. Indagini archeologiche hanno appurato l'esistenza di un'ampia corte di guardia con una controporta interna, a conferma della complessità del sistema difensivo. Già nei primi secoli d.C., l'arco volto a Nord venne tamponato: la porta, così ridimensionata ad un solo fornice, continuò a segnare l'ingresso alla città fino alla seconda guerra mondiale. Al termine del conflitto, nella convulsa fase ricostruttiva, il monumento fu distrutto nella parte rimasta in vista per tanti secoli, mentre fu recuperata la parte occultata nelle murature delle case adiacenti. L'arco "riscoperto" venne rimontato dopo varie vicessitudini lontano dal luogo originario, a fianco del Tempio Malatestiano, prima di essere ricomposto nella zona originaria.
La costruzione della porta Montanara, detta anche di Sant'Andrea, risale al I secolo a.C. e si inserisce in un organico programma di riassetto del sistema difensivo cittadino, attribuito a Silla. La porta rientrerebbe nell'ambito delle ricostruzioni che, nei primi decenni del secolo, seguirono alle rappresaglie nei confronti della città, già sostenitrice di Mario, suo avversario nella guerra civile. L'arco a tutto sesto, in blocchi di arenaria, costituiva una delle due aperture della porta che consentiva l'accesso alla città per chi proveniva dai colli lungo la via aretina, percorrendo la valle del Marecchia. Il doppio fornice agevolava la viabilità, incanalando in passaggi paralleli, il percorso in uscita da Ariminum, attraverso il cardo massimo, e quello in entrata. Indagini archeologiche hanno appurato l'esistenza di un'ampia corte di guardia con una controporta interna, a conferma della complessità del sistema difensivo. Già nei primi secoli d.C., l'arco volto a Nord venne tamponato: la porta, così ridimensionata ad un solo fornice, continuò a segnare l'ingresso alla città fino alla seconda guerra mondiale. Al termine del conflitto, nella convulsa fase ricostruttiva, il monumento fu distrutto nella parte rimasta in vista per tanti secoli, mentre fu recuperata la parte occultata nelle murature delle case adiacenti. L'arco "riscoperto" venne rimontato dopo varie vicessitudini lontano dal luogo originario, a fianco del Tempio Malatestiano, prima di essere ricomposto nella zona originaria.
Resti Del Teatro Romano
Dell'imponente edificio per spettacoli eretto nel I sec. d.C., non rimangono che pochi ruderi oggi inglobati in più recenti costruzioni che ricalcano l'originario andamento curvilineo delle gradinate (cavea). Prossimo al foro, fu probabilmente eretto per volontà di Augusto nell'ambito degli interventi di sviluppo urbanistico promossi dall'imperatore. Di forma semicircolare, aveva un diametro esterno di ca. 80 metri, mentre all'interno la lunghezza della scena misurava ca. 23 metri. La cavea, completamente autoportante, era sorretta da murature radiali e concentriche, costruite in malta con laterizi a vista. Corridoi di accesso coperti da volte a botte, consentivano lo smistamento verso le scale che conducevano alle gradinate. Dei raffinati e grandiosi apparati scenici, non restano che un fusto di colonna alto più di 4 metri e alcune decorazioni architettoniche marmoree. Occultato per secoli, ma mai completamente cancellato dalla memoria come attestano alcune fonti medievali, il teatro fu "riscoperto" agli inizi degli anni '60 grazie all'intuito dello studioso riminese Mario Zuffa, allora direttore della Biblioteca e del Museo. A lui si deve anche il rinvenimento, nei pressi della chiesa di S. Michele in foro, di una epigrafe frammentaria il cui testo viene riferito ad un intervento di decorazione architettonica del teatro, attuato nella prima età imperiale.
Dell'imponente edificio per spettacoli eretto nel I sec. d.C., non rimangono che pochi ruderi oggi inglobati in più recenti costruzioni che ricalcano l'originario andamento curvilineo delle gradinate (cavea). Prossimo al foro, fu probabilmente eretto per volontà di Augusto nell'ambito degli interventi di sviluppo urbanistico promossi dall'imperatore. Di forma semicircolare, aveva un diametro esterno di ca. 80 metri, mentre all'interno la lunghezza della scena misurava ca. 23 metri. La cavea, completamente autoportante, era sorretta da murature radiali e concentriche, costruite in malta con laterizi a vista. Corridoi di accesso coperti da volte a botte, consentivano lo smistamento verso le scale che conducevano alle gradinate. Dei raffinati e grandiosi apparati scenici, non restano che un fusto di colonna alto più di 4 metri e alcune decorazioni architettoniche marmoree. Occultato per secoli, ma mai completamente cancellato dalla memoria come attestano alcune fonti medievali, il teatro fu "riscoperto" agli inizi degli anni '60 grazie all'intuito dello studioso riminese Mario Zuffa, allora direttore della Biblioteca e del Museo. A lui si deve anche il rinvenimento, nei pressi della chiesa di S. Michele in foro, di una epigrafe frammentaria il cui testo viene riferito ad un intervento di decorazione architettonica del teatro, attuato nella prima età imperiale.
Palazzo Lettimi
Uno dei più prestigiosi palazzi del Rinascimento riminese, rappresenta ancora oggi una ferita aperta nella città dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Costruito agli inizi del Cinquecento da Carlo Maschi, uomo di governo insignito di varie cariche pubbliche, il palazzo, di quattro piani, passò in eredità alla famiglia Marcheselli. Fu Carlo che commissionò la decorazione del salone del piano nobile, affidata nel 1570 al faentino Marco Marchetti, noto per aver lavorato a Palazzo Vecchio di Firenze. Tema delle pitture erano le gesta di Scipione l'Africano ai tempi della seconda guerra punica: alcune delle tavole a soffitto, salvate dai disastri della guerra, sono ora al Museo della Città. L'edificio, che aveva ospitato i regnanti inglesi e Cristina di Svezia, entrò in possesso, nel 1770, della famiglia Lettimi. Andrea, il nuovo proprietario, restaurò la costruzione e la innalzò di un piano, collegandola all'attigua residenza. Dal 1902 diventò, per lascito testamentario, di proprietà comunale, con il vincolo che il Liceo musicale fosse intitolato a Giovanni Lettimi. Del palazzo cinquecentesco si conserva il portale che, nelle formelle a bugna, unisce i simboli araldici della rosa quadripetala malatestiana ed il diamante dei Bentivoglio, in ricordo forse di un'unione matrimoniale fra le due famiglie vicine a Carlo Maschi. Cinquecenteschi anche il caratteristico muro a scarpa, raccordato alla parete da un cordolo in pietra, e le finestre, corniciate in pietra, sormontate dallo stemma della famiglia Maschi e da una coppia di delfini.
Uno dei più prestigiosi palazzi del Rinascimento riminese, rappresenta ancora oggi una ferita aperta nella città dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Costruito agli inizi del Cinquecento da Carlo Maschi, uomo di governo insignito di varie cariche pubbliche, il palazzo, di quattro piani, passò in eredità alla famiglia Marcheselli. Fu Carlo che commissionò la decorazione del salone del piano nobile, affidata nel 1570 al faentino Marco Marchetti, noto per aver lavorato a Palazzo Vecchio di Firenze. Tema delle pitture erano le gesta di Scipione l'Africano ai tempi della seconda guerra punica: alcune delle tavole a soffitto, salvate dai disastri della guerra, sono ora al Museo della Città. L'edificio, che aveva ospitato i regnanti inglesi e Cristina di Svezia, entrò in possesso, nel 1770, della famiglia Lettimi. Andrea, il nuovo proprietario, restaurò la costruzione e la innalzò di un piano, collegandola all'attigua residenza. Dal 1902 diventò, per lascito testamentario, di proprietà comunale, con il vincolo che il Liceo musicale fosse intitolato a Giovanni Lettimi. Del palazzo cinquecentesco si conserva il portale che, nelle formelle a bugna, unisce i simboli araldici della rosa quadripetala malatestiana ed il diamante dei Bentivoglio, in ricordo forse di un'unione matrimoniale fra le due famiglie vicine a Carlo Maschi. Cinquecenteschi anche il caratteristico muro a scarpa, raccordato alla parete da un cordolo in pietra, e le finestre, corniciate in pietra, sormontate dallo stemma della famiglia Maschi e da una coppia di delfini.
Anfiteatro
L'Anfiteatro romano sorgeva ai margini del centro abitato di Ariminum, in prossimità della linea di costa, allora più arretrata rispetto all'attuale. Di forma ellittica, complessivamente misurava 118x88 metri, mentre l'arena aveva un'ampiezza di metri 73x44, non lontana da quella dei più grandi anfiteatri. Vi si svolgevano spettacoli gladiatori che richiamavano un vastissimo pubblico, di almeno 12.000 spettatori. L'accesso avveniva attraverso i due ingressi principali, posti all'estremità dell'asse maggiore, e le numerose altre entrate che immettevano nel corridoio perimetrale, da cui si accedeva alle scale che conducevano alle gradinate in pietra. Edificato nel II secolo d.C., come testimonia la moneta dell'imperatore Adriano rinvenuta in una muratura, si sviluppava su due ordini sovrapposti: la sobria struttura in laterizio, che presentava all'esterno un porticato di 60 arcate, doveva risultare di grande effetto specie per chi giungeva dal mare. Quando nel III secolo, per fronteggiare la calata dei barbari, la Città si dotò di una nuova cinta difensiva, l'anello esterno dell'Anfiteatro fu inglobato nel circuito murario. Persa la funzione originaria, venne nel corso del Medioevo adibito ad orti; nel 1600 vi sorgeva un lazzaretto, collegato alla Chiesa e Monastero di Santa Maria in Turre Muro. Vicende che ne hanno occultato la memoria fino a quando, nell'Ottocento, Luigi Tonini riportò alla luce parte delle strutture. Rimane tuttora interrato il settore sud-occidentale su cui, dal dopoguerra, insiste il Centro Educativo Italo Svizzero.
L'Anfiteatro romano sorgeva ai margini del centro abitato di Ariminum, in prossimità della linea di costa, allora più arretrata rispetto all'attuale. Di forma ellittica, complessivamente misurava 118x88 metri, mentre l'arena aveva un'ampiezza di metri 73x44, non lontana da quella dei più grandi anfiteatri. Vi si svolgevano spettacoli gladiatori che richiamavano un vastissimo pubblico, di almeno 12.000 spettatori. L'accesso avveniva attraverso i due ingressi principali, posti all'estremità dell'asse maggiore, e le numerose altre entrate che immettevano nel corridoio perimetrale, da cui si accedeva alle scale che conducevano alle gradinate in pietra. Edificato nel II secolo d.C., come testimonia la moneta dell'imperatore Adriano rinvenuta in una muratura, si sviluppava su due ordini sovrapposti: la sobria struttura in laterizio, che presentava all'esterno un porticato di 60 arcate, doveva risultare di grande effetto specie per chi giungeva dal mare. Quando nel III secolo, per fronteggiare la calata dei barbari, la Città si dotò di una nuova cinta difensiva, l'anello esterno dell'Anfiteatro fu inglobato nel circuito murario. Persa la funzione originaria, venne nel corso del Medioevo adibito ad orti; nel 1600 vi sorgeva un lazzaretto, collegato alla Chiesa e Monastero di Santa Maria in Turre Muro. Vicende che ne hanno occultato la memoria fino a quando, nell'Ottocento, Luigi Tonini riportò alla luce parte delle strutture. Rimane tuttora interrato il settore sud-occidentale su cui, dal dopoguerra, insiste il Centro Educativo Italo Svizzero.
Chiesa di San Giovanni l'evangelista
L'imponente chiesa edificata dai monaci Agostiniani alla fine del XIII secolo, era ad aula rettangolare con copertura a capriate; sul fondo si apriva una grande abside affiancata da due cappelle, una delle quali costituiva la base del campanile. La facciata è oggi profondamente rimaneggiata dagli interventi settecenteschi che hanno alterato anche la fisionomia degli interni; ma le fiancate, scandite da sottili lesene, con la zona absidale e lo svettante campanile costituiscono una testimonianza dell'architettura religiosa gotica a Rimini. L'apparato decorativo dei primi del '300, giuntoci in parte, si compone di cicli di affreschi e di un grande Crocifisso ligneo: nel campanile si ammirano le Storie della Vergine e, alle pareti dell'abside, Cristo, Madonna in Maestà, Noli me tangere, le Storie di San Giovanni Evangelista. Nella fabbrica di Sant'Agostino sembra abbiano iniziato il loro prestigioso cammino pittori cui si deve la fama della Scuola del Trecento riminese, quali i fratelli Giovanni, Giuliano e Zangulus. La pittura trecentesca fu celata da interventi successivi finchè, nel 1916 un forte terremoto ne rivelò la presenza. Soltanto nel 1926 si potè procedere allo strappo e al restauro del maestoso Giudizio universale dipinto sull'arco trionfale, ora al Museo della Città. Con la ristrutturazione settecentesca, la chiesa si arricchì di notevoli opere tra cui gli stucchi barocchi a soffitto di Ferdinando Bibiena e gli affreschi di Vittorio Maria Bigari. Del grande Convento sorto a fianco della Chiesa e che sappiamo avere ospitato una importante Biblioteca ed un famoso Studio con annesso Collegio, non restano che deboli tracce incorporate nella struttura settecentesca, realizzata su progetto del cesenate Giuseppe Achilli, a seguito del disastroso terremoto del 1786. Soppresso nel 1798 al passaggio delle truppe francesi, il convento si caratterizza per le ampie dimensioni, la sobrietà delle architetture e l'equilibrio delle proporzioni, la presenza di grandi aree cortilizie.
L'imponente chiesa edificata dai monaci Agostiniani alla fine del XIII secolo, era ad aula rettangolare con copertura a capriate; sul fondo si apriva una grande abside affiancata da due cappelle, una delle quali costituiva la base del campanile. La facciata è oggi profondamente rimaneggiata dagli interventi settecenteschi che hanno alterato anche la fisionomia degli interni; ma le fiancate, scandite da sottili lesene, con la zona absidale e lo svettante campanile costituiscono una testimonianza dell'architettura religiosa gotica a Rimini. L'apparato decorativo dei primi del '300, giuntoci in parte, si compone di cicli di affreschi e di un grande Crocifisso ligneo: nel campanile si ammirano le Storie della Vergine e, alle pareti dell'abside, Cristo, Madonna in Maestà, Noli me tangere, le Storie di San Giovanni Evangelista. Nella fabbrica di Sant'Agostino sembra abbiano iniziato il loro prestigioso cammino pittori cui si deve la fama della Scuola del Trecento riminese, quali i fratelli Giovanni, Giuliano e Zangulus. La pittura trecentesca fu celata da interventi successivi finchè, nel 1916 un forte terremoto ne rivelò la presenza. Soltanto nel 1926 si potè procedere allo strappo e al restauro del maestoso Giudizio universale dipinto sull'arco trionfale, ora al Museo della Città. Con la ristrutturazione settecentesca, la chiesa si arricchì di notevoli opere tra cui gli stucchi barocchi a soffitto di Ferdinando Bibiena e gli affreschi di Vittorio Maria Bigari. Del grande Convento sorto a fianco della Chiesa e che sappiamo avere ospitato una importante Biblioteca ed un famoso Studio con annesso Collegio, non restano che deboli tracce incorporate nella struttura settecentesca, realizzata su progetto del cesenate Giuseppe Achilli, a seguito del disastroso terremoto del 1786. Soppresso nel 1798 al passaggio delle truppe francesi, il convento si caratterizza per le ampie dimensioni, la sobrietà delle architetture e l'equilibrio delle proporzioni, la presenza di grandi aree cortilizie.
Santuario di Santa Maria delle Grazie
Il complesso francescano fu edificato alla fine del Trecento (1391-1396) grazie al mecenatismo della famiglia delle Caminate alleata dei Malatesta, laddove esisteva una celletta in ricordo di un evento miracoloso. La prima chiesa fu però consacrata solo nel 1430. A questa struttura a pianta rettangolare, oggi coincidente con la navata di destra dell'attuale chiesa, fu aggiunto il bel soffitto ligneo a carena di nave di tipo veneziano, una rarità per la nostra regione. Successivamente la chiesa fu ingrandita e arricchita di notevoli opere d'arte. Fra il 1569 e il 1578 fu realizzata una chiesa nuova inglobando a fianco quella precedente e vi fu trasferito il soffitto ligneo. La chiesa venne affrescata internamente nel Seicento, mentre parte degli affreschi visibili all'esterno, sotto il porticato che appartengono alla fase tre-quattrocentesca, furono scoperti nel 1919: raffigurano un'Annunciazione di scuola umbro-marchigiana. All'interno la chiesa conserva presso l'altare maggiore una tela raffigurante l'Annunciazione dell'Arcangelo Gabriele a Maria, attribuita al terzo decennio del Quattrocento ad opera del pittore eugubino Ottaviano Nelli. Altra opera importante è il Crocifisso su tavola databile intorno agli anni trenta del Quattrocento di scuola emiliana, conservato presso la seconda cappella di sinistra. Dalla chiesa provengono alcune piccole sculture quattrocentesche in alabastro raffiguranti il Calvario, oggi conservate nel museo di Francoforte sul Meno in Germania. La Seconda Guerra Mondiale ha danneggiato notevolmente il complesso, in particolare la parte residenziale del convento.
Il complesso francescano fu edificato alla fine del Trecento (1391-1396) grazie al mecenatismo della famiglia delle Caminate alleata dei Malatesta, laddove esisteva una celletta in ricordo di un evento miracoloso. La prima chiesa fu però consacrata solo nel 1430. A questa struttura a pianta rettangolare, oggi coincidente con la navata di destra dell'attuale chiesa, fu aggiunto il bel soffitto ligneo a carena di nave di tipo veneziano, una rarità per la nostra regione. Successivamente la chiesa fu ingrandita e arricchita di notevoli opere d'arte. Fra il 1569 e il 1578 fu realizzata una chiesa nuova inglobando a fianco quella precedente e vi fu trasferito il soffitto ligneo. La chiesa venne affrescata internamente nel Seicento, mentre parte degli affreschi visibili all'esterno, sotto il porticato che appartengono alla fase tre-quattrocentesca, furono scoperti nel 1919: raffigurano un'Annunciazione di scuola umbro-marchigiana. All'interno la chiesa conserva presso l'altare maggiore una tela raffigurante l'Annunciazione dell'Arcangelo Gabriele a Maria, attribuita al terzo decennio del Quattrocento ad opera del pittore eugubino Ottaviano Nelli. Altra opera importante è il Crocifisso su tavola databile intorno agli anni trenta del Quattrocento di scuola emiliana, conservato presso la seconda cappella di sinistra. Dalla chiesa provengono alcune piccole sculture quattrocentesche in alabastro raffiguranti il Calvario, oggi conservate nel museo di Francoforte sul Meno in Germania. La Seconda Guerra Mondiale ha danneggiato notevolmente il complesso, in particolare la parte residenziale del convento.